Addio ad un amico.
Ho conosciuto la guerra nel 2022 attraverso le colonne dei profughi in fila in silenzio alla frontiera e gli aerei militari che volavano a bassa quota. Negli ultimi tre anni l’ho rincontrata molte volte, nei bombardamenti, nelle luci dei patriot che illuminavano la notte, nei campi minati lungo le strade, nei racconti di sofferenza della gente dei villaggi liberati dall’occupazione russa e in tanti altri modi ancora.
Questa volta la sto incontrando in maniera ancora diversa, come volontario di un Medevac, un’unità medica che si occupa dell’evacuazione dei feriti civili e miliari dal fronte. L’unità è organizzata da una fondazione e i membri sono tutti civili, anche se nell’aspetto e nel lavoro non sono diversi da un’unità medica militare. Sono, o questo punto posso dire siamo, tutti volontari, per la maggior parte ucraini ma anche croati, americani, scandinavi e soprattutto britannici. Alcuni sono veramente utili, altri sono turisti di guerra venuti a farsi qualche selfie e che sono pronti a prendere la via di casa quando un petardo scoppia troppo vicino. Mancavano solo gli italiani a questa insalata russa di varia umanità ed io sono il primo di loro a far parte del gruppo. Sono stato un po’ una sorpresa per tutti perché scherzo sempre (lo faccio per finta di non preoccuparmi), sono sufficientemente utile, preparato alle circostanze e mi adatto a qualsiasi situazione comprese le peggiori. Soprattutto dicono tutti che sono motivato quasi come un ucraino. A differenza dei militari veri non abbiamo armi ma solo elmetti, giubbetti antiproiettile e maschere antigas. Questo ci espone a qualche rischio ulteriore se dovesse accadere qualcosa di imprevedibile sulla linea del fronte, e dovessimo incappare in una pattuglia esplorante russa, ma sono eventualità remote a cui non pensiamo.
Oggi è il 24 dicembre, la mattina della vigilia di Natale e siamo Dnipro in una missione logistica: io, Buzz (questo è il suo Call sign) il nostro capo squadra ucraino e Tommy un paramedico inglese. Tommy non è il suo vero nome ma lo chiamerò così perché è una persona molto riservata che non ama la pubblicità. Lui fa il soccorritore sulle ambulanze a Londra e due volte l’anno usa tutte le sue ferie per venire qui in Ucraina a soccorrere i feriti. È la persona più vicina ad un eroe che io abbia mai conosciuto perché, a differenza di me, non ha legami con l’Ucraina ed è qui perché pensa che sia la cosa giusta da fare. Ne abbiamo parlato spesso durante queste mattine davanti ad una tazza di tè: mi ha raccontato che all’inizio della guerra era in Romania e lavorava per le Nazioni Unite. Accoglievano i profughi ucraini e lui, oltre a curali, ascoltava le loro storie. Ad un certo punto ha capito che le NU non facevano abbastanza, anzi non avevano intenzione di fare nulla e ha deciso di fare lui quello che gli altri non facevano.
Buzz (anche a lui ho cambiato il Call sign per privacy) è un barbuto giovanotto ucraino con una sana passione per le ragazze e il buon cibo. Prima della guerra lavorava nella produzione di filmati televisivi, soprattutto spot pubblicitari, parla un ottimo inglese e ha girato molte parti del mondo. Adesso fa l’autista per le unità di Casevac, la parte del lavoro più difficile del Medevac. Si tratta di andare a prendere i feriti direttamente in prima linea dalle trincee o dai carri ambulanza dell’esercito. In pratica sei sempre dove sparano e volano i droni, e dove si rischia la pelle veramente ad ogni minuto. Lo fa da quasi due anni: un mese al fronte a salvare vite e un mese a casa per lavorare e mantenersi. Al pari di tutti gli altri volontari ucraini, ma anche di noi stranieri, per fare quello che fa al fronte non lo paga nessuno. Buzz non parla mai di politica, mi dice spesso che vorrebbe la pace, ma aggiunge sempre che la guerra non l’hanno voluta gli Ucraini e lui vuole rimanere libero, costi quello che costi. Credo che sia quello che pensano la maggior parte degli Ucraini e quello che li spinge da quasi tre anni a non cedere. Buzz e Tommy hanno entrambi 28 anni e io ne ho 57, quasi trenta più di loro. Per l’età potrebbero essere i miei figli, e se lo fossero, credo che non ci sarebbe padre più orgoglioso di me.
La notte scorsa è passata bene: la roulette russa dei bombardamenti sulle città ci ha risparmiato a scapito di altri disgraziati, non ci sono stati blackout elettrici e nell’alloggio in cui abbiamo dormito c’era persino l’acqua calda. È stata una notte quasi normale e continuiamo a illuderci di questa normalità cercando un McDonald per fare colazione. Si, McDonald è aperto anche in zona di guerra: “business is business” e non conosce confini o contingenze. Mangiando ci prepariamo alla prima tappa della nostra giornata: accompagneremo Buzz da un amico che è sepolto qui. Era un ragazzo di vent’anni, un combat medic, uno degli infermieri militari che soccorrono i soldati in prima linea. Ha messo un piede su una mina andando ad aiutare un soldato ferito e la detonazione ne ha fatte esplodere altre otto attorno a lui che lo hanno letteralmente dilaniato. C’è da sperare per lui che sia morto all’istante pensando a quello che potrebbe aver sofferto se avesse avuto anche solo pochi minuti di agonia. Buzz era in rotazione al fronte quando è successo e non ha potuto partecipare ai funerali così ha scelto l’occasione di passare da qui per dargli l’estremo saluto.
Arriviamo alla periferia di Dnipro e immediatamente dopo esserne usciti imbocchiamo una stradina di campagna sterrata. Il nostro mezzo si arrampica su alcune basse colline e, dopo pochi minuti, vediamo il cimitero sulla cresta di una di queste. All’inizio è una linea di bandiere ucraine all’orizzonte, che man mano che ci avviciniamo diventa un quadrato, poi un rettangolo, poi due rettangoli. Qui in Ucraina usa mettere una bandierina sulla tomba dei soldati morti in guerra e la distesa di bandierine che abbiamo davanti è il cimitero militare più grande di Dnipro. Lo hanno posizionato accanto ad un cimitero di campagna ma ben presto ha superato e raddoppiato le dimensioni di quest’ultimo. È diviso in due sezioni, ma i bulldozer sono già al lavoro per preparare la terza. Non si può dire che sia costruito perché a parte un monumento e il pennone della bandiera all’ingresso non c’è niente di costruito, neanche l’ingresso stesso. Le sezioni sono degli immensi rettangoli di prato verde all’interno delle quali ordinatamente giacciono le tombe separate da alcuni vialetti con le indicazioni per rintracciare i caduti. Le tombe sono una diversa dall’altra: si va dalle semplici croci ad elaborate pietre tombali, pagate dalle famiglie, con incise le immagini dei soldati morti. L’unica cosa che le accomuna sono le bandiere e la causa per cui hanno dato la vita gli uomini che ospitano.
Ci avviamo a piedi verso il cimitero: Buzz avanti con in mano le indicazioni per trovare la tomba, io e Tommy rispettosamente un passo indietro. Prima di entrare Tommy si allontana con la scusa che abbiamo lasciato accese le luci del mezzo. Io fermo Buzz e gli chiedo diretto se preferisce andare da solo. Lui mi guarda smarrito. Prima mi dice di no, poi subito dopo si, mi ringrazia e si avvia in cerca del suo amico. Quando ritorna ha ancora gli occhi lucidi, ci abbracciamo in tre con Tommy e riprendiamo la nostra strada. Mentre ci allontaniamo dal cimitero Buzz per scaricarsi emotivamente ci racconta del suo amico. Io penso ad un mio amico caduto tanti anni fa in Afganistan ed insieme a Tommy rinnoviamo le ragioni perché siamo qui. Siamo qui perché il sacrificio di questi ragazzi non sia stato vano, per dare una speranza di sopravvivenza ad altri di loro, siamo qui per il paese e il sogno di libertà per cui hanno dato la vita. Abbiamo tutti e tre gli occhi lucidi mentre il mezzo corre veloce sull’autostrada. Essere soldati, perché questo è quello che in questo momento siamo, non vuol dire non avere percezione del valore della vita umana, specialmente quella di un ventenne.
Il punto rosso sulla Mappa.
Ci avviamo verso la seconda tappa del nostro viaggio di Natale, la citta di Nikopol. Con l’eccezione di quelle dove si combatte strada per strada, dall’inizio della guerra Nikopol è la città più pericolosa dell’Ucraina. È situata sulla sponda nord del Dnepr, ad un’ottantina di chilometri ad ovest di Zaporija ed è in zona rossa, la fascia di trenta chilometri alle immediate spalle del fronte. Dall’altra parte del Dnepr a tre chilometri e mezzo di distanza ci sono i russi che giornalmente la bombardano con ogni tipo di ordigno: cannoni, droni, missili ecc. È una distruzione scientifica e selettiva perché i russi, in realtà, non hanno la volontà di raderla al suolo completamente. Sfruttando il fiume che garantisce loro l’impunità, la usano come poligono di tiro per addestrare il loro personale e provare nuove armi o nuovi proiettili. Il menù dei bombardamenti del giorno dipende da cosa i generali russi hanno necessità di testare. Qualunque sia il menù comunque Nikopol è l’unico puntino costantemente rosso sulla mappa dell’ucraina dell’app che segnala i bombardamenti. Purtroppo il bersaglio di tanta distruzione scientifica non sono i militari. Loro hanno abbandonato la città spostandosi al di fuori di essa, e sono al sicuro dai tiri dei Russi. Il bersaglio sono i civili, i suoi abitanti, che pervicacemente, in buona parte, hanno deciso di non abbandonarla sfidando il fuoco del nemico. Il governo ucraino ha offerto loro anche dei sussidi per spostarsi in zone sicure, ma loro non mollano.
Io mi sento personalmente in colpa per questa tappa così pericolosa perché non era nel nostro itinerario originario. Ho chiesto io il permesso di venire qui perché devo consegnare dei laptop ad una scuola donati da un Rotary Club di Bologna. Buzz e Tommy, i ragazzi che sono con me, sono stati felici di accompagnarmi, ma se qui succederà qualcosa la responsabilità sarà solo mia e di nessun altro.
Quando siamo ripartiti dal cimitero mi sono scambiato di posto con Tommy: lui è al finestrino ed io in mezzo fra lui e Buzz alla guida. Se dovesse succedere qualcosa, lui è più giovane e veloce e quindi può saltare in fretta dal mezzo mente io sono più vecchio e più lento e gli sarei di ostacolo. La sicurezza è fatta anche di dettagli e di piccole precauzioni. A una ventina di chilometri da Nikopol il GPS impazzisce sostenendo che siamo in mezzo al Dnper. Il segnale schermato vuol dire che siamo in zona calda e quindi ci fermiamo ed indossiamo i giubbetti antiproiettile. L’elmetto no, lo portiamo in cabina, ce lo porteremo dietro per precauzione quando scendiamo, ma non ce lo mettiamo. Le maschere antigas le lasciamo sul retro del mezzo contando che ci sia un limite all’umana sfortuna.
Benché Nikopol sia una zona interdetta (un amico giornalista in passato ha dovuto richiedere un permesso speciale per andarci) al posto di blocco i miliari dell’SBU, i servizi di sicurezza e polizia militare, ci fanno segno di proseguire senza necessità di fermarci per la parola d’ordine. Anche per i militari Nikopol è un posto dove non vai se non hai una buona ragione per farlo. La città all’inizio ci sorprende (nessuno dei miei due amici era mai stato lì prima) perché tutto sembra normale. Poca gente in giro, alcuni edifici distrutti ma in generale non vediamo macerie o devastazioni recenti. Poi ci spiegheranno che è merito della resilienza dei suoi abitanti e soprattutto dell’amministrazione pubblica. Dopo i bombardamenti, che per la maggior parte colpiscono gli edifici pubblici, immediatamente il comune ed i cittadini si attivano per sistemare i danni e far sparire ogni traccia immediatamente cancellabile di quanto è avvenuto. Il tutto al massimo entro il giorno successivo. Un vero miracolo di resilienza.
Appena raggiungiamo l’edificio della scuola ci corre incontro la direttrice che in modo concitato ma cortese ci fa spostare il nostro furgone militare in una posizione in cui non sia visibile. Se viene avvistato da un drone da ricognizione i russi possono pensare che nella scuola si nasconda del materiale militare e bombardarla. È probabile che prima o poi venga bombardata comunque ma ha poco senso alzare le probabilità. All’interno della scuola ci accolgono con la tipica ospitalità ucraina: pane e sale, seguito da biscotti tartine, thè e caffè. Con l’aiuto di Buzz che fa da interprete la direttrice ci spiega la situazione della città e della scuola. Hanno ancora circa ottocento alunni che studiano per metà giornata on line e per metà in presenza per evitare disturbi alla socialità quando tutto questo sarà finito. Il problema più complesso è farli muovere perché, a causa dei droni, non possono tenerli all’aperto e per disposizione di ordine pubblico nessun bambino può stare all’esterno se non accompagnato da un adulto.
Per proteggere i bambini la scuola ha creato un sistema di rifugi nei sotterranei con aule, sale comuni ambulatori e dormitori. In caso di attacco i rifugi accolgono anche gli altri civili e pure i cani randagi. La direttrice ci invita a visitarli e nel farlo ad un certo punto dobbiamo uscire dall’edificio e passare in un altro attraversando un campo da basket. Purtroppo i momenti di tranquillità trascorsi ci hanno fatto dimenticare la prudenza e quando la direttrice ci suggerisce di correre da un edifico all’altro, per evitare di essere avvistati da un drone, ci accorgiamo di esserci dimenticati giubbetti ed elmetti nel suo ufficio. Una pessima distrazione che in futuro cercheremo di evitare.
Finita la visita e salutata la direttrice ci lasciamo alle spalle velocemente Nikopol e il Dnepr, oltre il quale si staglia all’orizzonte la minacciosa sagoma di una delle torri della centrale nucleare di Zaporija. Prima di ripassare i posti di blocco dell’SBU, ci fermiamo a fare rifornimento in una stazione di servizio alla periferia della città. Mentre Buzz si occupa della pompa, ed io e Tommy siamo nel retro del furgone a sistemare il carico, quando iniziamo a sentire le esplosioni. La prima è solo un tonfo lontano e mentre io e Tommy ci scambiamo un’occhiata come per dire “pensi anche tu quello che penso io” arriva la seconda. Questa volta è più vicina ed è accompagnata dal suono delle sirene. A Nikopol le cose vanno così: i russi sono talmente vicini che prima arrivano le bombe e poi l’allarme. Scendiamo dal furgone e vedendo tutte le macchine che si allontanano in velocità realizziamo che una stazione di servizio non è proprio il posto più sicuro dove stare durante un bombardamento. Facciamo appena a tempo a staccare la pompa per allontanarci quando le esplosioni cessano improvvisamente così come erano iniziate. Il tutto è durato poco più di qualche minuto. Probabilmente è stato un attacco di droni. Questa guerra è particolare anche per questo: puoi essere morto per un drone in pochi secondi senza nemmeno accorgetene.
Attraversiamo la città di Zaporija, la diga/ponte che i Russi hanno cerca per lungo tempo di distruggere e ci avviamo verso il Donbass. Andiamo a Pokrosk la prossima città che sarà posta sotto assedio dai Russi ed uno dei teatri degli scontri più feroci. Pokrosk è uno snodo logistico fondamentale per la guerra in Donbass. Lì arriva la principale arteria dei rifornimenti da Zaporija e da lì raggiunge Torek, Casiv Jar e Kramatosk. Per i Russi prenderla significherebbe tagliare completamente la logistica dei caposaldi che difendono il Donbass e per gli Ucraini ridirezionare completamente il loro flusso di rifornimenti passando per strade più lunghe e tortuose.
Man mano che avanziamo in Donbass i posti di blocco si moltiplicano e non basta più il veicolo militare e le uniformi a garantirci il passaggio. Il personale ai posti di blocco porta sull’uniforme le fasce colorate che si vedono spesso nei video, ci chiede le parole d’ordine e talvolta anche i documenti personali. A Zaporija abbiamo imboccato una specie di autostrada ma dopo un po’ passiamo su strade di campagna sterrate. Il traffico civile man mano si dirada fino a scomparire e le poche auto civili che s’incontrano, guardandoci dentro, sono guidate anch’esse da militari. Inizia a fare buio e il traffico nonostante le strade strette e scassate si decuplica: è il momento in cui la logistica militare si mette in movimento e lo sarà fino all’alba. Ad un certo punto il GPS smette di nuovo di funzionare e ci arrangiamo con mappe, ricordi e senso dell’orientamento. Comunque siamo di nuovo in zona calda. Buzz da bambino ha visto alcuni film di Fantozzi e raccontiamo a Tommy in inglese alcune delle gag più memorabili di Paolo Villaggio: l’allenamento in bicicletta, il varo della nave, la clinica per dimagrire e altre. Ridiamo e scherziamo ma in realtà siamo nervosi. I droni russi hanno un’autonomia di trenta chilometri e comodamente colpiscono a venti. Non abbiamo idea a che distanza stiamo passando dalla linea del fronte, che corre parallela alla strada che percorriamo. L’unica cosa che sappiamo è che il nostro veicolo non è equipaggiato con scanner e jammer per difendersi dai droni. Il fatto che la maggior parte degli altri veicoli ce li abbiano non preannuncia nulla di buono.
Finalmente arriviamo alla nostra destinazione un paesino dalle strade fangose nelle retrovie del fronte che brulica di uomini e di veicoli: pick-up armati, furgoni, Hummer e anche qualche blindato. Passiamo davanti a quello che probabilmente era l’unico bar o trattoria del paese. È ancora aperto e ha persino una fila di luci di natale sotto cui si accalcano in fila i soldati per un piatto caldo con cui integrare il rancio della sera. Una cosa strana di questa guerra è che non essendoci aviazione non c’è oscuramento o quasi e la fila dei soldati sotto le luci da a tutto questo una strana aria da festa paesana. Ad un certo punto incontriamo un civile che cammina in mezzo alla strada agitando come un matto le falde della giacca, fregandosene nel modo più assoluto degli autisti militari che lo insultano perché si levi di torno. È una scenetta comica che mi fa venire in mente Mash di Robert Altman e strappa a tutti e tre una risata.
La Notte di Natale.
Il vero Mash lo vedo quando arriviamo a destinazione: si chiama punto di stabilizzazione ed è dove i feriti vengono portati dal Medevac, per essere stabilizzati e destinati agli ospedali. In pratica è il sostituto degli ospedali da campo e questo è quello del Battaglione Da Vinci Wolves, una delle unità di volontari più famosi dell’Ucraina. Qui l’oscuramento c’è e per evitare di essere individuati tutte le finestre dell’edificio che lo ospita sono coperte da spessi teli. Si sentono dei “tuoni” in lontananza ma cessano dopo poco dal nostro arrivo. Tommy verrà a prestare servizio qui fra una settimana e all’esterno vengono ad accoglierci i membri del team di Medevac a cui il suo darà il cambio. Uno di loro si rivolge a me e mi chiede cosa sono: un anestesista o un paramedico. Rispondo nessuno dei due ed il mio interlocutore pensando che io sia un combattente, con un sorrisino ironico mi dice “allora sei uno scavafosse o uno destinato a riempirle, come tanti qua attorno”.
Entriamo nella struttura e scopriamo che fino a poco tempo fa era una scuola o un asilo. Nell’atrio, vicino all’entrata, sono accatastati i lettini dei bambini con sopra ancora le coperte colorate, mentre in fondo campeggia una specie di altare votivo del fondatore del battaglione con una sua fotografia contornata da ceri e icone ortodosse. Dmytro Ivanovych Kotsiubailo, call sign “Da Vinci”è una leggenda in Ucraina. Quando è scoppiata la guerra nel 2014 aveva solo 18 anni ed è partito volontario. Ha formato una sua unità, i Da Vinci Wolves e si è guadagnato sul campo tutte le più importanti onorificenze militari ucraine incluso l’ordine di Eroe dell’Ucraina. Quando è stato ucciso nel marzo del 2023, difendendo Bachmut, il presidente Zalensky ne ha dato personalmente l’annuncio in televisione. In tutte le foto ufficiali appariva sempre crucciato con un piglio da duro, mentre in questa quasi sorride mostrando quello che realmente era. Era un ragazzo, un ragazzo morto a soli 27 anni e che ha passato tutta la sua vita da adulto in una trincea combattendo per essere libero, e per un futuro che non vivrà mai.
Nell’atrio ci viene incontro Alina la vedova di Dmytro che dirige il punto di stabilizzazione. È una ragazzina che al massimo avrà venticinque anni. Mi vengono le lacrime agli occhi pensando alla vita da adulta che anche lei ha fatto sin ora, al dolore che deve aver provato quando la guerra le ha strappato ciò che aveva di più caro e alle responsabilità di cui continua nonostante a farsi carico dirigendo un ospedale da campo in prima linea. È una ragazza eccezionale e anche lei ha l’età per poter essere mia figlia. Se lo fosse ne sarei immensamente orgoglioso. Vorrei chiederle il permesso di fare una foto all’altarino di Dmytro ma non ho il coraggio. Tutto dovrebbe essere documentato ma mi sentirei come un turista di guerra. Non lo sono, non mi sento tale e non voglio nemmeno sembrarlo.
Quando ero piccolo l’Anna la mia tata abruzzese, quando si parlava di persone cattive, sibilava a denti stretti nel dialetto teramano “prenderei nu’ legno e gl’acciacherei la testa”. Dio mi perdoni ma questa sera vorrei tanto avere in mano quel legno ed essere al Cremlino e acciaccargli la testa per benino. E se Dio non mi perdonasse non m’interessa, lo farei lo stesso per tutte quelle migliaia di giovani sia Ucraini che Russi a cui lui sta portando via la vita e comunque gli anni migliori. Lo farei per tutte le sofferenze che sta causando. Lo farei per senso di giustizia.
Torniamo fuori per scaricare i medicinali che portiamo e mentre lo facciamo arriva l’altra unità logistica con cui avevamo il rendez vous. Fuori i medicinali e dentro le gomme da ambulanza di cui ha necessità un’altra squadra. Dopo aver finito il lavoro facciamo il cenone di Natale presso l’ospedale da campo dei Da Vinci. Ci fanno accomodare in una stanzetta attrezzata a refettorio e Alina stessa ci serve una scodella di zuppa col pane. Mi viene da sorridere che una ragazzina con le responsabilità di un maggiore o di un tenete colonnello di sanità militare si preoccupi di dare da mangiare personalmente a tre improvvisati Re Magi, che le hanno portato un carico di medicine la notte della vigilia di Natale. È toccante e quasi simbolico, e mi chiedo se la Madonna avesse offerto anche lei una ciotola di zuppa ai Re Magi. Da queste parti indubbiamente si creano strani Presepi.
Di feriti all’ospedale ce ne sono tanti. I ragazzi del Medevac ci hanno detto che sono due giorni che ne portano in continuazione. Però non si sentono lamenti: saranno gli effetti dei sedativi o quelli della dignità o forse di entrambe. Ci viene invece a trovare la mascotte dell’ospedale, un bellissimo e affettuosissimo Akita Inu maschio di colore rosso. In Ucraina tutte le unità militari hanno cani e gatti come mascotte, a volte più di uno. Aiutano i soldati a mantenere un contatto con la propria umanità nonostante gli orrori della guerra. Anche questo cucciolone fa qui il suo e un po’ aiuta anche noi. Ciascuno di noi tre, accarezzandolo, con un sorriso ripensa al proprio amico peloso che lo aspetta a casa. A lui non resisto e chiedo ai miei amici di farmi una foto mentre lo abbraccio, da mandare a casa per far capire che va tutto bene.
Ringraziata Alina per la zuppa ci mettiamo al tavolo e tracciamo l’itinerario su cui proseguire. Siamo a sud ovest di Prokrosk e per proseguire verso Sloviansk dovremmo attraversare la città, seguendo l’arteria logistica principale. Decidiamo però che è troppo pericoloso perché, dopo che i Russi hanno preso il villaggio di Shevchenko, la strada passa troppo vicino al fronte, e rischiamo d’incappare in qualche drone che non siamo equipaggiati per affrontare. Quindi andremo a nord est tagliando Pokrosk e Costantinivka, puntando direttamente su Kramatosk. Ci rimettiamo in moto e prima di uscire dal paese incontriamo di nuovo il matto che vaga fra il traffico e gli improperi degli autisti militari. Di nuovo questa scenetta ci strappa una fragorosa risata.
Navighiamo nella sera che ci appare buia come la tarda notte. Percorriamo strade fangose piene di veicoli militari di ogni genere che hanno fatto la nostra stessa scelta. Una cosa che ci colpisce è il numero di incidenti stradali a cui passiamo a fianco. Ne contiamo ben otto in un paio di ore e Tommy commenta che sarebbe imbarazzante andare in guerra e tornare ferito a causa di un banale incidente stradale, una cosa che può capitarti anche nel Surrey dove abita lui. In effetti non ha tutti i torti e invitiamo Buzz ad essere prudente. Essendo un autista di Casevac è abituato alla velocità e anche su queste stradacce raramente scende sotto i cento all’ora. Per altro il furgone, un vecchio Mercedes 4×4, è una donazione di un’anziana signora inglese di nome Rose e ha la guida a destra. Quindi, ad ogni sorpasso, è Tommy o chi siede al finestrino che deve dare il via libera all’autista per evitare di fare un frontale con veicolo che procede in senso opposto. Di notte, con la strada sterrata e nel fango, non è proprio la più sicura delle situazioni.
Arriviamo a Kramatorsk la città fortezza del Donbass verso le otto e Buzz propone di fermarci in un negozio di alimentari per comprare qualcosa con cui integrare il nostro magro cenone natalizio. Tutti i negozi sono ovviamente chiusi e le uniche persone ancora in giro sono militari. Troviamo fortunosamente un negozio di alimentari ancora aperto e compriamo degli spicchi di pizza surgelata, una confezione di salamini (in caso nell’alloggio non ci sia luce o gas per scaldare la pizza), un po’ di pane nero, qualche bottiglia d’acqua e una di coca cola. Non è un gran cenone ma servirà a calmare i morsi della fame. Fuori dal negozio c’è una strana macchina bianca con la scritta Nazioni Unite sul lato e all’interno un altrettanto strano tizio in mimetica. Tommy, cha ha lavorato per le Nazioni Unite, va a parlargli e torna indietro scuotendo la testa. “Quello è delle Nazioni Unite, come io sono una guardia della torre di Londra” sentenzia risalendo sul nostro veicolo. Cose e persone strane che s’incontrano da queste parti.
Mentre usciamo da Kramatorsk si spengono le luci stradali: è iniziato l’oscuramento perché qui c’è. Poco prima dell’oscuramento passiamo accanto al nono incidente: ad un incrocio un ragazzo locale ha tamponato una camionetta di energumeni barbuti che appartengono a qualche unità militare d’élite. Anche questa scenetta appare un po’ comica perché il ragazzo, nonostante sia in torto sbraita come se avesse ragione e i barbuti in mimetica, nel cercare educatamente di calmarlo, sembra un gruppo boys scout troppo cresciuti. Il pensiero che ci passa per la testa è unanime: ma come diavolo guidano da queste parti?
Finalmente arriviamo a Sloviansk e, grazie a Dio, nell’alloggio che ci hanno assegnato c’è la luce elettrica e un boiler a gas che sembra funzionate. Quindi, probabilmente, avremo anche l’acqua calda. Nell’alloggio ci sono solo un letto e un divano letto e i miei giovani amici, essendo io il più anziano, mi offrono la prima scelta su dove dormire. Lascio il letto e il divano a loro e mi ricavo un giaciglio con due poltrone messe una di fronte all’altra e il sacco a pelo. Alla fine sarà un giaciglio meno scomodo di quello che sembra, anzi quasi comodo. Dopo che ci siamo sistemati Buzz si eclissa con la scusa che deve andare a salutare un amico che lavora all’ospedale da campo di Lyman. Dopo che è uscito io e Tommy maligniamo che l’amico sia in realtà un’amica. Non ti metti al volante per altri quaranta minuti dopo che hai viaggiato in zona di guerra per tutto il giorno per salutare un amico, e nemmeno un fratello. In tutto questo non c’è niente di male: è la realtà della guerra che ti porta a cercare gli affetti dove e quando puoi. Anche Tommy, benché sposato, durante il suo ultimo turno qui, deve aver avuto una liaison con una sua compagna del team medico. Non me lo ha detto ma lo intuisco da come ne parla con rispetto, affetto e anche una punta di rimpianto. Forse farei lo stesso anch’io se rimanessi qui più a lungo.
Nell’attesa che Buzz ritorni proviamo a farci una doccia o qualcosa di simile. Il boiler funziona ma non c’è pressione per far arrivare l’acqua calda in bagno. Quindi la doccia diventa delle secchiate di acqua semi tiepida presa dal rubinetto di cucina con i contenitori vuoti dell’acqua potabile. Non ci lamentiamo perché rispetto ai soldati nelle trincee qui attorno stanotte dormiamo al Grand Hotel. Dopo esserci lavati alla bene meglio sbattiamo i tranci di pizza nel microonde e attacchiamo la confezione di salamini ed il pane nero. Mentre mangiamo ci mettiamo a parlare di quello che abbiamo visto quest’oggi, della guerra e dei nostri pensieri. Abbiamo indubbiamente tanto di cui parlare.
Buzz riappare dopo un paio d’ore felice come un bambino ed io e Tommy dentro di noi malignamo ancor di più. Nessuno di noi però gli dice niente, perché vederlo sorridere rende felici anche noi. Anche questo è un aspetto della guerra: gioire fino in fondo anche delle piccole cose perché non sai quale sarà il tuo domani. Noi questa sera un’idea del nostro più o meno ce l’abbiamo e ci mettiamo seduti tutti e tre per fare il programma di lavoro per il giorno successivo. Dobbiamo smontare un deposito di attrezzature mediche e spostarlo a Sumy. Una delle brigate si trasferisce da questa zona al tritacarne della sacca di Kursk e noi gli andiamo dietro. Oltre al deposito dobbiamo organizzare lì una base logistica e fare dei sopralluoghi per valutare la viabilità verso Sudza, nonché individuare una nuova la posizione per l’ospedale da campo. Finiamo il planning e poi ognuno fila al suo letto o presunto tale. Al buio prima di addormentarci sento la voce di Tommy che urla “Hey Mates, Merry Christmas”. Io guardo l’orologio e sorrido: è mezzanotte e dieci, è Natale e non ce n’eravamo neppure accorti. Si è proprio Natale. Buon Natale a tutti.