si riproduce l’intervista integrale del Corriere della Sera a Claudio Martelli: «La mia scrivania era piena dei post-it di Giovanni Falcone. Toghe colpevoli per la sua morte»

di Francesco Verderami – fonte Corriere della Sera (www.corriere.it): Claudio Martelli: «La mia scrivania era piena dei post-it di Giovanni Falcone. Toghe colpevoli per la sua morte» | Corriere.it

RICORDIAMO GIOVANNI FALCONE a pochi giorni dall’anniversario della strage di Capaci, l’attentato di stampo terroristico-mafioso compiuto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992 

L’ex ministro e il legame con il giudice ucciso dai clan: «Io e Giovanni Falcone costruimmo l’Fbi all’italiana. Credo non sia mai stato così felice come in quel periodo. Nessuno ricorda quel discorso di Borsellino dopo la morte: “La magistratura forse ha più colpe di tutti”»

Quando ne parla lo chiama «Giovanni», «perché passammo dal lei al tu in poco tempo». Claudio Martelli ricorda i giorni trascorsi al ministero di Grazia e Giustizia con Giovanni Falcone. Rammenta la consuetudine che divenne ben presto familiarità. «Succedeva quasi tutte le mattine: veniva nel mio ufficio, si sedeva di fronte a me, prendeva fiato come faceva lui, tirava fuori il suo blocchetto di post-it e li attaccava sulla mia scrivania. C’erano spunti sugli argomenti più diversi. Da riforme complesse a piccoli grandi problemi di cui veniva a conoscenza: “In questa Procura in Sicilia c’è un giovane sostituto procuratore che lavora da solo con un computer che si porta da casa. E lui dovrebbe fare la lotta alla mafia? E con che cosa? Con un computer e due carabinieri di supporto, mentre Cosa nostra ha centinaia di uomini armati?”».

Di «Giovanni» gli tornano in mente «le mani delicatissime, la voce piana, leggermente querula. E il suo fare sornione. A lui piaceva fare scherzi. Per esempio toglieva la chiave mentre guidava l’auto. L’auto voleva sempre guidarla lui, era la sua mania. È morto anche per questo a Capaci: se si fosse seduto dietro, si sarebbe salvato. A volte la sera uscivamo a Roma. Ci mettevano d’accordo, licenziavamo le scorte e andavamo a cenare in ristoranti fuori mano. Da soli. Mi diceva: “È molto più sicuro così, Claudio. Tranquillo”. Facemmo viaggi in giro per l’Europa e per gli Stati Uniti. Una volta mi fece anche preoccupare».

Come preoccupare?
«Viaggiavamo su un aeroplanino a tre posti: era un Cessna messo a disposizione dai Servizi. A un certo punto lo vidi irrigidirsi. Iniziò a trattenere il fiato, divenne paonazzo. E questa cosa si ripeté due, tre volte. “Giovanni stai male? Che succede… Giovanni…”. “No no tranquillo, è che quando mi trovo in spazi stretti faccio sempre questi esercizi”».

Lei chiamò «Giovanni» a Roma il 2 febbraio del 1991, appena diventato Guardasigilli del settimo governo Andreotti.
«Sì, lo nominai direttore degli Affari penali, il ruolo più importante al ministero. Non aveva ancora preso l’incarico quando una sera ci fu una sparatoria davanti alla mia casa sull’Appia. I due fermati dissero di essere dei cacciatori. Si scoprì dopo che erano due mafiosi di Alcamo, che intanto erano stati rilasciati. Comunque, la mattina seguente Giovanni volle venire a vedere. Osservò i proiettili nel muro e commentò: “Non è un attentato, è un ammonimento”. Forse gli sembrai deluso e allora aggiunse sorridendo: “Non si preoccupi, se continua così un attentato prima o poi glielo fanno”».

Ancora vi davate del lei e lui non le ingombrava la scrivania con i post-it.
«Credo non sia mai stato così felice in vita sua come in quell’anno e mezzo a Roma. Era rasserenato, presentava progetti ogni giorno. Poteva fare il lavoro che aveva sempre sognato… (si ferma, si incupisce, smette di parlare di «Giovanni» e inizia a parlare di «Falcone»). È stata stesa una coltre inaccettabile sulla storia di Falcone e sulle responsabilità dei suoi colleghi magistrati per la sua morte. Nessuno ricorda mai le parole pronunciate da Paolo Borsellino un mese dopo l’assassinio di Falcone e venti giorni prima di essere a sua volta assassinato: “Nel ripercorrere queste vicende della vita professionale di Falcone — disse Borsellino — ci accorgiamo di come il Paese, lo Stato e la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio del 1988”».

Cosa accadde nel gennaio dell’88?
«Il Consiglio superiore della magistratura doveva decidere chi sarebbe subentrato ad Antonino Caponnetto come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Caponnetto era il magistrato che aveva costituito il pool antimafia. E il passaggio di testimone a Falcone era considerato naturale, ampiamente giustificato dal fatto che nel dicembre del 1987 aveva vinto il maxi-processo: il primo grande processo a Cosa nostra, che aveva portato alla condanna di tutti i boss, a partire da Totò Riina e Bernardo Provenzano».

Falcone quindi non sembrava aver rivali per quell’incarico.
«Era il magistrato più famoso al mondo. Aveva fatto condannare la cupola mafiosa. Aveva sviluppato la cooperazione giudiziaria internazionale con l’Fbi, la magistratura francese, quella tedesca. Ma il Csm gli preferì Antonino Meli. Fu una manovra decisa dai magistrati a tavolino per tagliar fuori Falcone, perché Meli puntava a un’altra carica. Fernanda Contri, che era uscita sconfitta dalla battaglia nel Csm, ricevette una telefonata da Falcone: “Avete capito che mi avete consegnato alla mafia? Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché sanno che non mi vogliono neanche i miei”. Insomma, il Csm lo degradò, lo delegittimò. Lo espose».

E la sua frase fu profetica.
«Ad agosto dello stesso anno subì l’attentato all’Addaura, una zona di mare vicino a Palermo dove in quel weekend era andato insieme alla giudice svizzera Carla Del Ponte. Trentotto candelotti di dinamite vennero trovati dalla sua scorta sul vialetto che dall’abitazione portava alla spiaggia. A vigilare c’erano anche due poliziotti su un canotto. L’indagine non approdò a nulla, anche perché a distanza di pochi mesi i due poliziotti testimoni furono assassinati. Non si seppe mai da chi. Falcone disse che la regia dell’attentato era stata “opera di menti raffinatissime”».

A chi si riferiva?
«Chiaramente non alla mafia, ma a pezzi delle istituzioni. Poi si candidò alla Procura di Palermo ma non venne selezionato. Poi si candidò al Csm e ottenne appena 101 voti su 7.005. Intanto Borsellino era andato a fare il procuratore a Marsala. Lui era solo e isolato».

E lei lo chiamò.
«E lui venne a Roma. Gli dissi che avrei voluto trasformare in leggi dello Stato le esperienze che lui aveva maturato con il pool antimafia. “È quello che voglio fare anch’io”, mi rispose. In realtà abbiamo fatto molto di più».

In che senso?
«Era uno specialista della collaborazione internazionale. Un giorno venne chiamato dal procuratore di Mosca: pare che il suo collega russo avesse un fagotto di carte nelle quali ci sarebbero state le prove di come il Pcus rubava i soldi allo Stato per finanziare i partiti amici in Europa, compreso il Pci. Eravamo nel periodo del crollo verticale del regime, il periodo di Boris Eltsin, e il procuratore di Mosca voleva raccontargli come il flusso di danaro non si fosse fermato. Falcone chiese la mia autorizzazione. Non fece in tempo a usarla».

Ma non doveva fare il direttore degli Affari penali?
«Visitammo tutte le procure più esposte in Calabria e in Sicilia. Ricordo un viaggio a Bonn, dove incontrammo il ministro dell’Interno tedesco. Eravamo nella sede della Volkswagen e il mio collega disse: “In Germania non abbiamo segnali di infiltrazioni mafiose”. Allora Falcone gli chiese: “Quanti siciliani lavorano alla Volkswagen?”. Il ministro s’informò subito: “Cinquemila, sono cinquemila”. “Allora la mafia c’è”, concluse Falcone. In questo commento c’era il giudizio disincantato, quasi disperato sulla sua terra, “dove regna una cultura di morte”».

Con quei post-it cosa faceste?
«Costruimmo l’Fbi all’italiana: da una parte la Direzione nazionale antimafia e dall’altra — insieme al ministro dell’Interno Vincenzo Scotti — la Direzione investigativa antimafia. Strutture nuove, con basi in tutta Italia e il vertice a Roma. Scrivemmo anche la legge antiracket per dare coraggio ai commercianti e indurli a denunciare la mafia che li obbligava al pizzo. E nel gennaio del 1992 istituimmo la Procura nazionale antimafia».

Contro la quale scoppiò un putiferio.
«In Parlamento si scatenarono i fascisti e i comunisti, questi ultimi impegnati a tutelare la loro longa manus nel Csm. I magistrati per la prima volta dichiararono lo sciopero nazionale e lo condirono con attacchi personali a Falcone: “Falcone non dà più garanzie di indipendenza, perché lavora per un ministro”. E ovviamente si misero di traverso per la sua nomina alla Superprocura. Ingaggiai una dura lotta con il Csm perché Falcone ottenesse l’incarico. Ma il 23 maggio del 1992 venne ucciso a Capaci insieme a sua moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e agli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Dopo la sua morte tutti vennero a chiedere scusa».

E Borsellino?
«Lo chiamai il giorno della strage. Non ci facemmo le condoglianze: c’era sgomento e voglia di lottare. Poi parlai con Gianni De Gennaro. Mi disse: “So che siamo animati dallo stesso sentimento…”, “Di odio”, lo interruppi. “Non solo. Credo ci sia anche un certo rancore personale” (resta a lungo in silenzio). Questa è la storia di Falcone. Giudicate voi».

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